The Redeem Team, quando Kobe e LeBron cancellarono gli incubi della nazionale americana

2022-10-14 20:57:29 By : Mr. Mike Wang

Da oggi su Netflix il documentario sulla riscossa di team USA, che abbiamo visto in anteprima.

Operazioni riscatto, perché la vittoria è un obbligo se indossi la canotta di Team USA. Questa è la linea di The Redeem Team: le Olimpiadi della riscossa, il documentario firmato da Jon Weinbach (e con LeBron James e Dwyane Wade tra i produttori esecutivi) disponibile da oggi su Netflix, che ripercorre la rinascita del basket americano a livello internazionale dopo tre fragorosi flop che hanno cambiato la pallacanestro mondiale e ridotto il gap tra i maestri e il resto del globo. L’incubo vissuto ai Mondiali del 2002 (6° posto e sconfitte contro l’allora Jugoslavia, Argentina e Spagna, nonostante si giocasse a Indianapolis) e il bis per fare la storia dal lato sbagliato nell’edizione successiva del 2006 (3° posto e ko in semifinale contro la Grecia), hanno racchiuso il periodo più buio nella storia recente di team USA. Anche perché in mezzo è arrivato il disastro olimpico di Atene 2004, con un bronzo rimediato dopo un altro ko per mano della Generación Dorada guidata da Ginobili, Scola e Nocioni.

La presa di coscienza, all’epoca, è netta quanto clamorosa: gli Stati Uniti non sono più l’ombelico del mondo cestistico. Certo la NBA è sempre la lega più dura, spettacolare e seguita del mondo, ma la storia cambia e adesso anche gli altri hanno imparato a giocare. E il problema degli americani è proprio questo: non si preoccupano degli altri, peggio ancora non li considerano, perché sono (anzi si sentono) i più forti e quindi destinati a vincere. Errore madornale, perché gli ingiocabili sono diventati battibili per merito di Argentina e Spagna, Grecia e anche Italia – era una gara amichevole ma le triple ignoranti di Basile e Galanda nella tappa di avvicinamento alle Olimpiadi greche restano indelebili – hanno studiato e lavorato anni per formare collettivi di valore, meno talentuosi ma con più chimica e voglia di sacrificio rispetto a un gruppo di assi che mettono la gloria personale davanti allo spirito di squadra.

Senatori da una parte guidati dalla strana coppia Iverson-Duncan e giovani futuri ma allora acerbi fenomeni dall’altra (LeBron, Melo e Wade), separati dall’incomunicabilità che si erge nelle tre settimane di preparazione a Jacksonville. Questo è il fotogramma del Nightmare Team, guidata (male) da Larry Brown che non riesce a compattare un nucleo incapace di abbracciare lo spirito a cinque cerchi. Niente villaggio olimpico e immersione con gli altri atleti durante la spedizione greca, in favore di una nave ormeggiata al porto della capitale ellenica che allontana Team USA dal centro nevralgico di un evento senza eguali e crea antipatia intorno ad atleti che si atteggiano senza avere il carisma, la credibilità e la fama di Jordan, Magic e Bird. “Non avevamo una cultura, ci hanno preso e messo insieme poco prima delle Olimpiadi”, ammette Carmelo Anthony, con LeBron James che a distanza di anni cristallizza la spedizione in un laconico “eravamo una squadra senza anima”.

Atene 2004 è stato il momento più basso e della conseguente svolta per la nazionale statunitense, da quel momento affidata a Jerry Colangelo e Mike Krzyzewski. Chiamare un coach di college, per quanto popolare come il manico di Duke, può rivelarsi un azzardo, invece coach K trova il modo di farsi seguire. Offre rispetto e motiva ogni giocatore in cambio di dedizione e serietà: niente comparsate e niente spazio per l’ego personale, perché serve ripartire da zero e dalla volontà di imparare a conoscere gli avversari. Analizzarli per batterli, questa è la ricetta di cui gli Usa hanno bisogno per risalire la china. Nonostante la partenza falsa, con l’ennesimo schiaffo rimediato dalla Grecia di baby Shaq (al secolo Sofoklīs Schortsianitīs, lungo di stazza simile nell’aspetto all’ex centro dei Lakers), Vasilīs Spanoulīs, Diamantidis e Theo Papaloukas nella semifinale dei Mondiali 2006 in Giappone, coach K prosegue la ricostruzione del Redeem Team adeguando il gioco alle regole FIBA (talvolta sconosciute agli atleti Usa) anche se per salire di livello mancano esperienza e conoscenza maniacale del gioco.

Per dirla con un nome solo, manca Kobe Bryant. L’allora olimpico fa gola all’unico fuoriclasse americano che il basket europeo lo conosce per davvero, anche perché Kobe in Cina è idolatrato come nessun altro asso NBA. “Ci sto, sono stufo di vedervi perdere”, dichiara Bryant in una intervista di repertorio che segna la seconda parte del documentario. Dopo il chiacchieratissimo divorzio da Shaq, il 24 gialloviola deve dimostrare di saper giocare con gli altri e accetta il ruolo di facilitatore in nazionale. E il suo innesto cambia molte cose, a partire dalla mentalità dei compagni.

Radunati a Las Vegas per gli allenamenti prima della partenza per Pechino, LeBron, Melo e Wade sudano sul parquet e si divertono nei nightclub. Kobe invece si allena di giorno e nel pomeriggio, la sera non esce e alle 6 del mattino inizia la sua routine in palestra mentre gli altri rincasano da lunghe e calde nottate. Lo stupore iniziale verso il diverso lascia presto spazio all’emulazione, così James e gli altri si accodano gradualmente a Kobe, gli allenamenti si fanno più duri e l’amalgama si stringe in campo e fuori.

La folle oceaniche che seguono Kobe fin dallo sbarco a Pechino fanno schizzare ulteriormente l’esigenza di successo del numero dieci di Team USA, guida di un gruppo che ha imparato a non sottovalutare gli avversari. “Non è solo una questione di basket”, spiega a un certo punto Wade, per esprimere l’obbligo di tornare a vincere la medaglia d’oro di un progetto avviato tre anni prima. La Grecia all’esordio chiama vendetta immediata e infatti non c’è gara, anche se stavolta non si deve umiliare nessuno, bensì giocare duro ma leale per farsi apprezzare, di nuovo, da tutto il mondo. La lezione di Atene è servita, in Cina anche le star NBA soggiornano nel villaggio olimpico, si mescolano con gli atleti delle altre discipline e siedono sugli spalti per sostenere i connazionali.

Il messaggio da inviare all’esterno è la rinascita tecnica e comportamentale della nazionale a stelle e strisce. “Quattro anni fa ci siamo chiusi in una torre d’avorio, dando un’impressione sbagliata”, riconosce LeBron James. La priorità resta sempre il campo, così l’impegno con la Spagna è l’occasione per sistemare almeno in parte i conti col passato. Per Kobe è un match diverso dagli altri, dall’altra parte c’è Pau Gasol, compagno nei Lakers e ben più di un amico fuori dal campo. Che però indossa una canotta diversa e quindi va battuto.

Archiviati i convenevoli di rito nei giorni precedenti la gara con la visita di Kobe nell’alloggio degli iberici (parte della strategia dell’inganno del Black Mamba), quando si alza la palla a due il toro vede rosso e attacca frontalmente. La prima azione è della Spagna e Kobe colpisce in pieno petto Gasol che porta il blocco per liberare Rudy Fernandez al tiro: l’impatto è fragoroso, lo spagnolo vola a terra, l’americano non muove un muscolo. Niente di casuale e nessun raptus, anzi, tutto come previsto e promesso ai compagni, perché è per loro il messaggio spedito da Kobe: niente deve intralciare la corsa all’oro di Team USA. “Ci aveva avvisato che lo avrebbe fatto ma quando ho visto la scena ho pensato che fosse impossibile perdere quella partita”, ha confessato poi James.

Le altre tappe nel torneo olimpico sono una formalità per gli americani, che in semifinale ritrovano l’Argentina e i trucchi motivazionali di coach K. Ritagli di giornali che lodano Ginobili riservati a tutti gli esterni per caricare a molla Wade e Bryant, che decide di incollarsi alla guardia di San Antonio. Gli statunitensi iniziano forte e non si guardano più indietro, chiudendo a +20 e mettendo nel mirino per l’ultimo atto, ancora una volta, la Spagna di Navarro, Rubio, Reyes, Jimenez, Garbajosa, Fernandez e Calderon.

Il giorno prima della finale Kobe festeggia 30 anni ma chiede ai compagni di rimandare i divertimenti per restare concentrati, mentre LeBron organizza una festa a sorpresa che compatta ancor più il gruppo atteso all’ultimo miglio. Che si rivela più complesso del preventivato, perché gli iberici non muoiono mai e hanno tante carte (e classe) da giocarsi, oltre alla grandezza di Pau Gasol, che ridicolizza spesso i lunghi americani. Un Wade ispirato quanto preciso trascina gli Usa nei primi 30 minuti, che però non scappano perché Rubio e Fernandez sfoggiano grandi letture e percentuali stratosferiche. Nei tre minuti finali sale in cattedra Kobe, che trova le giocate decisive per vincere la resistenza iberica, riportare gli Stati Uniti sul gradino più alto del podio olimpico e completare l’operazione riscatto. Una chiusura del cerchio dovuta, desiderata e goduta per aver riaperto la striscia vincente del basket statunitense a livello internazionale fino ai fallimentari Mondiali 2019. Ma quella è un’altra storia e difficilmente qualcuno gli dedicherà un documentario.