Violenza senza fine: viaggio dentro una storia di percosse, tortura, e stupri / Notizie / Home - Unimondo

2022-08-06 15:39:29 By : Mr. Matt Wang

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Sabrina Prioli - Foto fornita da Sabrina Prioli 

Sabrina Prioli è sociologa, cooperante, ed esperta in monitoraggio di progetti di sviluppo; nel 2016 si trovava in missione in Sud Sudan quando è stata picchiata, torturata e violentata da militari del governo. La sua storia è raccontata nel suo libro, “Il viaggio della Fenice”, i cui ricavati sono devoluti in beneficienza. In l’autunno uscirà il suo secondo libro.

Iniziamo parlando del tuo primo libro? 

Sì, racconta la mia storia in Sud Sudan; inizialmente era stato pubblicato da una piccola casa editrice, l’unica che mi aveva risposto. Poi ha chiuso per via del Covid e quindi l’ho auto-pubblicato. Ho avuto un grande riscontro, vinto un premio e venduto tantissimo su Amazon. L’ho scritto in maniera molto leggera, e di fatto l’ho utilizzato anche per i percorsi nelle scuole, dove mi chiamano per parlare della violenza sessuale. Spero col nuovo libro di poter continuare, questa è proprio diventata la mia missione. Pensa che ho iniziato anche a mandare proposte per realizzare delle consulenze di piani di contingenza ed emergenza in caso di abuso e violenza sessuale prima e dopo che succedano queste cose; e che mi sono certificata come coach per aiutare le donne che subiscono questo tipo di violenza.

Il secondo libro è già ultimato?

L’ho quasi finito, è in revisione; parla di quanto, come e perché uno stupro sia irreversibile; di come si crei un danno permanente e non solo alla vittima ma al suo mondo e alla civiltà tutta.  

Qual è uno dei problemi più grandi per le donne che subiscono questa violenza?

Si ha paura del giudizio altrui, di non essere capite, di non essere credute. È questo che blocca le donne, per questo che non denunciano. Io ho deciso di raccontare cosa si prova - lo dico anche ai ragazzi delle scuole, chiedetemi quello che volete. 

Qual è la domanda che ti fanno di più?

Mi chiedono come sto adesso, se ho problemi ad avere rapporti sessuali, com’è il mio rapporto con gli uomini e con il mio compagno, quando vedo in televisione delle scene di violenza come reagisco. Sono domande molto pratiche che non mi fanno mai giornalisti. In una scuola un ragazzo mi ha chiesto anche come avevo fatto con l’AIDS ed effettivamente ho dovuto fare delle cure lunghissime per evitare di prenderlo.  

Col tuo compagno come avete gestito il post violenza?

All’inizio è stata dura per me; lui ha avuto tantissimo rispetto, ed ha aspettato i miei tempi. Per me è cambiato qualcosa, mentre prima mi piaceva prendere l’iniziativa adesso è come se dentro mi sentissi sporca. Quindi se lui mi desidera, mi sento accettata. Se invece devo prendere io l'iniziativa è come se avessi il rifiuto dentro di me. Per altre donne è il contrario, se sentono il desiderio da parte dell'uomo si bloccano perché ci vedono la violenza.  

Non c’è un solo modo di essere vittime.

No, non esiste soltanto la versione che abbiamo in testa della donna vittima, remissiva, che non riesce a parlare, tutta in chiusa in sé stessa che non vuole vedere più nessuno e non vuole più saperne de gli uomini. Io mi mostro perché ci sono pure persone che reagiscono diversamente. Bisogna andare oltre lo stereotipo, oltre il pensiero che un trauma porti a una sola reazione. Le reazioni sono tante. Questa violenza a me ha regalato la forza della giustizia, un valore che si è accentuato ancora di più.  

Ti sei sentita giudicata come donna cooperante?

Sì. C’è l’idea che se sei una donna e vai in un contesto difficile, allora sono cose che ti devi aspettare. È lo stesso stigma che si ha quando una donna viene violentata: se camminava per strada con la gonna corta allora vuol dire che se la cercava. Nel 2022 questo concetto c’è ancora, non si centra l’attenzione su chi è responsabile della violenza. 

Io direi chi non ci ha protetto - quindi le Nazioni Unite e prima di tutto lo UNMISS (la Missione delle Nazioni Unite in Sud Sudan, ndr). Nessuno parla del fatto che c’erano report che valutavano il rischio, o del fatto che non siamo stati evacuati in tempo, che io e in un'altra collega siamo state lasciate lì tutta la notte nonostante il cessate il fuoco, non si parla della riparazione. Alla fine una è vittima ed in più deve anche combattere contro il giudizio, l’indifferenza ed il silenzio dell'opinione pubblica, delle istituzioni, e della società civile. 

Le organizzazioni per cui lavoravate come hanno reagito?

Questo è stato uno degli altri scandali. Non solo nell’emergenza hanno fallito; ma anche il dopo: non ci hanno detto di raccogliere gli slip come prove, non avevano la pillola del giorno dopo, erano completamente impreparate. E parliamo di organizzazioni grandi! Per dirti, quando sono arrivata in ospedale in Kenya, mi hanno portato dei ricambi di vestiti: una gonna, una giacchettina, un vestitino. Nessuno ha pensato al cambio intimo. Io ho avuto le stesse mutandine per giorni. Continuavo a lavarle, lì ci vedevo la violenza. Lavavo, strofinavo, e mi rimettevo le mutandine bagnate.

Un giorno un mio collega mi chiede come va, io scoppio a piangere e gli dico “guarda, ho bisogno di mutandine”. Lui è impallidito ed è andato a comprarne. Ma l’ho dovuto dire io a un collega uomo, tra l'altro.

Facciamo un passo indietro. Hai voglia di raccontarmi cosa è successo?

Ero in Sud Sudan per una consulenza. Dopo il 4 luglio (2016, ndr) a Juba si sentiva un'atmosfera strana ed io avevo chiesto di essere mandata via. Un giorno avevamo una riunione con l'ambasciata americana; ricordo che ce la cambiarono un serie di volte, c’era stato un attacco a una macchina blindata americana. Andiamo a questa riunione, che dura pochissimo ed in cui la situazione è molto tesa. Ritorniamo con fatica perché tutto quanto è bloccato e a quel punto chiedo di prendere un volo per andarmene. Rispondono alla mia mail dicendo che il volo sarebbe stato l'indomani, la mattina presto. 

Venti minuti dopo questa mail incominciano i bombardamenti e le sparatorie proprio fuori dal compound (aree dove dimorano tutti i cooperanti, ritenute più sicure – ndr), sono scontri tra le forze governative e forze rivoluzionarie. Ci asserragliamo nell’unico edificio con la porta blindata e le barre metalliche alle finestre, e rimaniamo lì diversi giorni.  

Ma scusa: l’acqua, il cibo?

I primi giorni avevamo qualcosa da cucinare, poi abbiamo mangiato cibi liofilizzati che erano lì per le emergenze. Eravamo in contatto con le nostre organizzazioni, l'ambasciata americana, la Farnesina e ogni giorno tutti ci dicevano che sarebbero venuti a liberarci. Non è venuto nessuno. Il quinto giorno sono entrati i soldati del governo, qualche ora prima del cessate il fuoco. Hanno iniziato a distruggere tutto ed a saccheggiare. Poi hanno accerchiato il nostro edificio, hanno iniziato a sparare, a minacciarci di uscire, hanno cercato di sfondare la porta blindata, hanno cominciato a rompere i muri sotto per entrare fino a quando lo hanno fatto da una finestra che aveva una barra metallica rotta – nota che questo era un compound certificato come sicuro dalle Nazioni Unite.  

Dentro hanno cominciato a picchiare e sparare, hanno ucciso un giornalista che lavorava per un’organizzazione non governative americana. Un collega è stato preso alla gamba, io sono stata presa di striscio alla schiena. Nel frattempo sono arrivati quelli della National Security, la polizia sud sudanese - in tutto questo nessuno veniva a liberarci nonostante si sapesse che i soldati erano entrati. Quelli della National Security stavano agli ordini dei soldati. Hanno liberato gli uomini per primi poi hanno liberato alcune donne; quelle che sono rimaste sono state violentate, percosse, torturate. Poi è tornata la National Security ed ha liberato tutte però io e una mia collega eravamo in un’ala un po’ nascosta, e siamo state lasciate lì. Quando sono andati tutti via sono arrivati altri soldati che ci hanno trovate ed hanno continuato a violentarci e torturarci.  

Ho subìto cinque violenze sessuali da cinque soldati diversi, poi ho visto violentare la mia collega ed infine siamo state lasciate lì tutta la notte. Nessuno è venuto a prenderci nonostante il cessate il fuoco. Neanche la sicurezza, cioè quelli che erano assunti apposta dalla nostra organizzazione. Quelli delle Nazioni Unite hanno anche mentito: hanno detto che noi abbiamo telefonato ma la linea era caduta; e che poi loro sono venuti a cercarci, hanno chiamato i nostri nomi ma noi non abbiamo risposto. Ti dico soltanto che eravamo rinchiuse in bagno dentro la doccia con la tenda addosso perché eravamo massacrate dalle zanzare, terrorizzate, stavamo attente ad ogni piccolo rumore, sentivamo perfino il suono delle mosche che camminavano. Avevamo il terrore che se qualcuno fosse entrato nel compound ci avrebbe ammazzate. Secondo te non avremmo sentito qualcuno che entrava chiamando i nostri nomi? Ma come si permettono di dire una cosa del genere? Però le Nazioni Unite sono intoccabili, non abbiamo neanche potuto denunciarle. 

Avete aspettato che passasse la notte.

Appena ha fatto un po' di giorno siamo uscite. Davanti a noi c’era il cadavere di John, il giornalista, gli avevano sparato in testa. Abbiamo coperto il corpo, poi siamo andate di sopra e fortunatamente in mezzo al caos ho ritrovato il cellulare che mi aveva dato la mia organizzazione. Era un Nokia vecchissimo, ancora carico, e lì ho fatto il numero dell'emergenza. Hanno avuto pure il coraggio di chiedermi dove fossi. Dopo un'ora sono venuti a prenderci, ed invece di portarci a farci medicare ci hanno portate dal maresciallo, al centro della National Security - praticamente siamo dovute entrare nel covo degli assassini. Questo perché il maresciallo voleva parlarci e scusarsi con noi. Siamo rimaste lì, ferite, ad aspettare quasi un'ora che il maresciallo finisse una chiamata. Poi è arrivato un soldato con le scuse ed i saluti del maresciallo. Solo allora ci hanno portate in hotel, e poi ci hanno evacuate. 

Sono stata l'unica persona che è tornata in Sud Sudan a testimoniare in corte marziale. La battaglia è iniziata da subito, quando ho capito che ero da sola, nessuno mi contattava dalla Farnesina per dirmi come procedere. Ho fatto la denuncia alla procura della Repubblica e l’hanno archiviata. Poi mi sono resa conto che soltanto il manager del compound aveva sporto denuncia, per furto e scasso. Hanno iniziato a contattare le vittime perché avevano bisogno delle loro deposizioni ed io ho detto che avrei testimoniato per quello che avevano fatto a me, nel loro compound. Da lì è partita un’investigazione che fatto emergere come tante vittime fossero state violentate.

A quel punto il governo del Sud Sudan come ha reagito?

Il governo ci ha detto che se volevamo che il processo fosse anche penale avremmo dovuto andare a testimoniare di persona, e ci ha dato un mese di tempo per decidere. Io ho chiamato tutti, soprattutto gli uomini. Noi donne non volevamo tornare, eravamo anche minacciate di morte. Nessuno degli uomini mi ha risposto, e nessuna donna è voluta venire; nessuno credeva in questa corte marziale. Alla fine mi son fatta coraggio e sono tornata io da sola, mi sono pagata le spese legali e di viaggio per me e il mio compagno che è venuto con me. In loco in quanto a protezione mi ha aiutata l'ambasciata americana; visto che l'ambasciata americana si stava dando da fare allora si sono mossi anche gli italiani, dandomi un supporto logistico. Io ho aperto la porta: dopo di me è stata data la possibilità ad altri di testimoniare via Skype, e quindi anche altre donne si sono fatte avanti.

Ridicola, mi volevo appellare in Corte Suprema ma non è stato possibile perché hanno distrutto il file dell’intero processo - proprio perché non c'è stato un monitoraggio da parte delle Nazioni Unite e da parte dei nostri governi. 

E adesso hai avuto una riparazione.

Sì, che è ridicola – però c’è un aspetto importante: l'ammissione di colpa da parte del Sud Sudan. Quello che hanno fatto è stato un crimine, la violenza è stata usata come arma. In più hanno riconosciuto il concetto di riparazione. Questo era quello che volevo.

Giornalista pubblicista; appassionata di lingue e linguistica; attualmente dottoranda in traduzione, genere, e studi culturali presso UVic-UCC. Lavora come consulente linguistica collaborando con varie realtà del pubblico e del privato (corsi classici, percorsi di coaching linguistico, valutazioni di livello) e nel tempo libero ha creato Yoga Hub Trento – una piattaforma che riunisce varie professionalità legate al benessere personale. È insegnante certificata di yoga.

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